Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro, insieme all'agente Domenico Russo, furono uccisi in un agguato mafioso a colpi di kalashnikov, nella strage di via Carini |
"Un servitore dello Stato di cui lo Stato prima si è servito, poi ha abbandonato per fini poco attinenti alla salvaguardia dello Stato", questo ho pensato ieri in tarda serata, mentre guardavo la puntata de La storia siamo noi, che ha ripercorso la vita del generale Dalla Chiesa (al momento della sua uccisione in carica come "super prefetto" a Palermo) e i drammatici mesi che hanno preceduto la sua uccisione.
La redazione di Minoli, come al solito eccellente, ha ricostruito fedelmente le tappe salienti della biografia, lumeggiando bene allo stesso tempo l'uomo ed il carabiniere.
I successi riportati da Dalla Chiesa sono troppo numerosi per essere qui elencati, ma bisogna almeno ricordare il fatto che Carlo Alberto Dalla Chiesa è considerato colui che maggiormente ha contribuito alla vittoria dello Stato contro il terrorismo.
Proprio in virtù di ciò, l'allora Ministro dell'Interno Virginio Rognoni lo volle a capo della prefettura del capoluogo siciliano; il Vicecomandante Generale dell'Arma Dalla Chiesa ebbe delle perplessità in merito all'incarico, in quanto una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non gli interessava, gli interessava di più lottare contro la Mafia e i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato.
Fu convinto ad accettare, con la promessa che avrebbe avuto quanto richiesto e che lo Stato l'avrebbe sostenuto in tutto e per tutto, quindi nel maggio del 1982 assunse formalmente l'incarico; ma egli era stato inviato "in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì" (come egli stesso dichiarò).
Durante quei suoi "Cento giorni a Palermo" (si veda il film di Giuseppe Ferrara del 1984) i suoi familiari testimoniano che le sue richieste riamanevano tutte inascoltate e il Governo, soprattutto nella persona dell'allora Primo Ministro Giovanni Spadolini, ignorò le telefonate e le lettere del Prefetto palermitano, in cui Dalla Chiesa denunciava la collusione del potere politico con la Mafia, in particolare i grandi elettori democristiani della corrente andreottiana.
Le dichiarazioni dello stesso Spadolini, interrogato dai giornalisti, sul perché non fossero state prese in considerazione con la dovuta attenzione le segnalazioni del Generale, furono imbarazzate, balbettanti e indecenti: si legga il post "Il Generale Dalla Chiesa e le mani nere della DC".
Sempre nello stesso blog, Paese senza memoria, nel su citato post, si possono leggere le agghiaccianti risposte di Giulio Andreotti al Generale durante una conversazione, prima che Dalla Chiesa si trasferisse come Prefetto a Palermo, ma soprattutto quella data ai giornalisti del perché egli non si fosse recato al funerale ("preferisco i battesimi...").
Intorno all'omicidio Dalla Chiesa si annodano inevitabilmente altri segreti della vita della nostra Repubblica, tra tutti il memoriale di Moro, rinvenuto nel doppio fondo di un appartamento in via Monte Nevoso, che era servito come covo di alcuni brigatisti. Tali documenti furono consegnati da il generale a Giulio Andreotti (allora Primo Ministro), ma la figlia di Emanuela Setti Carraro ha dichairato che la madre le aveva confidato che Dalla Chiesa non aveva consegnato tutte le carte rinvenute, le quali contenevano segreti estremamenti gravi, che il marito le aveva fatto giurare di non rivelare a nessuno.
Degli stessi documenti (i cd. memoriali) parlò Mino Pecorelli, il direttore della rivista OP e amico del Generale; egli annunciò che li avrebbe pubblicati integralmente, ma fu ucciso il 20 marzo del 1979 prima che riuscisse a preparare il numero della sua rivista.
La sorella del giornalista ucciso dichiarò che Dalla Chiesa aveva incontrato pochi giorni prima il fratello e, in quella occasione, il Generale avrebbe confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandolgli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti (fonte articolo di Repubblica 11 giugno 1993 di Giovanni Maria Bellu "E Andreotti disse: fermate Pecorelli").
Inutile continuare, sugli anni della notte della Repubblica sono state scritte intere biblioteche ed io non ho gli strumenti certo per scoprire qualcosa di nuovo. Posso solo, come cittadina, cercare di capire cosa succede intorno a me, per questo ben vengano puntate come quelle de La storia siamo noi, che ci aiutano a coltivare il vizio della memoria!
Per esempio oggi anche un altro blogger Carlo Cortesi ha commemorato il ventottesimo anniversario della morte del Generale, di sua moglie e dell'agente di scorta Domenico Russo, pubblicando la superba intervista che Giorgio Bocca fece a Dalla Chiesa il 10 agosto per Repubblica, in cui è descritta anche fisicamente la solitudine in cui era stato abbandonato Dalla Chiesa; le istituzioni lo avevano lasciato solo a combattere contro la mafia. Le parole del Generale sono lucidissime ed individuano responsabilità, quantomeno morali, precise e inconfutabili; sono quelle di un soldato che, mentre gli ufficiali ed il resto della truppa hanno battuto la ritirata alla chetichella, sceglie con coraggio di rimanere a combattere da solo in un avamposto sperduto, per il senso dell'onore e per difendere le istituzioni, lo Stato, la democrazia.
Vi invito a rileggere quelle parole e a tenere a mente i fatti, affinché poi non ci vengano a dipingere come padri della Patria le persone sbagliate.
Penso alla testimonianza di Rita Dalla Chiesa, figlia del Generale, la quale racconta che, al termine della funzione, lei, suo fratello Nando e la sorella furono caricati su un taxi; una donna del popolo si staccò dalla folla urlante che imprecava contro il corteo dei politici presenti e si affacciò dal finestrino aperto nell'interno dell'abitacolo dell'autovettura ed in lacrime disse: "Scusateci ragazzi, ma non siamo stati noi!".
Inquietante.
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Dopo 32 anni dalla strage le parole del boss Riina (intercettato nel parlatoio del carcere) confermano i sospetti dei familiari del Generale: Dalla Chiesa fu ucciso da "uomini di Stato".
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